prima passeggiata alla Giannoni

L’INTRUSO

Terminato il giro della prima sala della galleria, accanto alla gigantesca Cavalcata del Fattori, ci imbattiamo in un quadro che, per epoca, soggetto, tecnica e stile, appare decisamente incongruo: Funerali di un anarchico di Lorenzo Viani.
La tempera su cartone del Viani è stata eseguita infatti tra il 1912 e il 1914, laddove tutti gli altri quadri esposti si ascrivono alla seconda metà del secolo precedente.
Né passa inosservato il fatto che il soggetto evoca quello spettro che si aggira per l’Europa il cui compito storico è abolire le classi sociali a partire dallo scontro frontale con quella borghesia che qui, nelle altre opere esposte, si racconta e si celebra nello sforzo di costruir sé stessa costruendo lo stato nazionale, magari vagheggiandone già ambizioni imperiali.
A testimoniare della natura borghese della pittura qui rappresentata, ci pensa – pur nella difformità delle figurazioni che riflettono la varietà di scuole regionali destinate ad un ancor lunga sopravvivenza – l’assoluto predominio della luce.
Non c’è quadro appeso alle pareti, a parte questo del Viani, che non sia permeato da una luce che è, al contempo, naturalistica e simbolica. Persino nella doverosa penombra che circonfonde la morte del Mamiani, vibra un chiarore nascente a significare che il crepuscolo del tramonto dell’eroe si fonde con quello dell’alba della patria.
La luce, come ben attestano le vitree superfici dei palais delle Esposizioni universali, è il vero simbolo del trionfo della borghesia nell’epoca bella per antonomasia.
Un inaudito progresso di scienza e tecnica sembra aver definitivamente scacciato le tenebre primordiali che per troppo tempo avevano gravato sul cuore dell’uomo e una nuova filosofia è nata per trasmettere e consolidare la nuova coscienza di sé.
Anche nell’Italia unita quella nuova filosofia si era rapidamente diffusa e con il magistero di Pasquale Villari prima e dell’Ardigò dopo, aveva conquistato le università, di lì irradiandosi, malgrado Spaventa, malgrado Labriola, alla nascente opinione pubblica, partito socialista compreso.
Voci dissonanti non erano mancate, e neppure neglette. Nietszche, ad esempio. Ma è significativo, per quello che qui ci interessa, che ad offrirsi per la copertina della prima edizione italiana (1896) del Così parlò Zaratustra, sia Segantini, cioè un esponente di quel divisionismo che, sia pure con minor rigore del pointillisme, trae comunque i propri fondamenti dall’ottica, rendendosi in qualche modo tributario dello scientismo positivista che vorrebbe rifiutare.
Aveva insomma ragione Mario Praz ad affermare che “se certe note cupe e tragiche d’Oltralpe s’infiltraron tra noi, erano attenuate, decotinizzate, adattate all’ambiente sostanzialmente morale e borghese”.
Tutto sommato, dunque, il dipinto di Viani piazzato a questo punto del percorso, comunica correttamente al visitatore odierno, il senso d’inquietudine che realmente faceva capolino in quel finir del diciannovesimo secolo, principiando a velarne d’ombra le luminose certezze; fermo restando, però, che trattandosi di uno stato d’animo ancora implicito, confuso e privo di adeguati strumenti espressivi, non poteva essere convenientemente testimoniato da un documento sincronico.
La crisi – di questo si tratta – del paradigma di interpretazione suggerito dalla rivoluzione industriale, si rivelerà compiutamente solo nel corso del primo decennio del secolo successivo, quando dalla fiduciosa misurazione oggettiva si passerà a un più problematico esperimento soggettivo del mondo.
Tempestiva consapevolezza se ne avrà al di là di quei confini che stanno per trasformarsi in trincee, dove l’idea di Nazione, estremo lascito del Romanticismo, ha funzioni più disgreganti che coesive. Qui l’Io, allargato (per Mach) al flusso incessante delle sensazioni, o ristretto (da Freud) nelle maglie di una dialettica tra differenti istanze, perde la sua consistenza ontologica. 
La letteratura dà puntualmente conto delle disavventure del soggetto che, nel marasma percettivo stenta a individuare il proprio sé (Törless), a stabilirne i confini con l’esterno (Malte Laurids Brigge), a conservarne la forma (Gregorio Samsa). Anche sul piano figurativo il simbolismo della Secession, in rapida deriva espressionista, sembra offrire lo strumento adeguato per esprimere lo spirito del tempo.
In Italia la funzione critica di impietosa liquidazione del vecchio e appassionata ricerca del nuovo, viene svolta principalmente dalle riviste, come «La Voce» prima (1908) e «Lacerba» poi (1913), ma sul piano della pittura sembra esserci qualche difficoltà a dotarsi degli attrezzi adatti, e neppure una neonata avanguardia sembrerà a tutti convincente.
Nel giugno 1911, infatti, recensendo su «La Voce» una mostra milanese dei futuristi, Ardengo Soffici non ha esitazioni a bollarli quali continuatori del  “filaccicume del divisionismo”. 
Soffici si ricrederà di lì a poco, ma per il momento, come si vede, non riconosce Carrà, Boccioni e consorti come novatori, qualifica che invece, scrivendo a Prezzolini, attribuisce a Picasso.
Tra quei quadri esposti a Milano che non gli piacciono, ce n’è uno di Carrà che nel titolo riecheggia quello di cui si discorre: I funerali dell'anarchico Galli.
Il tema è simile, ma lo svolgimento di Carrà è del tutto differente, qui infatti un ben visibile squarcio di cielo azzurro, rosseggiante di sole, si apre al di sopra delle due linee dinamiche che, per rendere l’idea dello scontro di piazza, convergono al centro, dove ondeggia in precario equilibrio la bara dell’anarchico. Che si tratti davvero di una radiosa giornata ce lo confermano le fiamme dei lancieri, nere per l’esasperato contrasto del controluce, e le lunghe ombre che fanno intendere un acceso tramonto .
Questo dominio della luce, che sovrasta il cupo groviglio dei corpi in lotta, non è certo lo strumento idoneo per trasmettere in chi guarda l’angosciante percezione di vivere in un’ epoca di profondo disagio.
Anzi, il dichiarato proposito sotteso dall’esasperazione cinestetica della mischia è proprio quello di affermare un primato della volontà che, traducendosi in azione, supera, e quindi nega, la crisi.
Osserviamo qui il tratto più generoso di una cultura di destra che porterà a tragiche e disperate scommesse contro il destino, ma che fallisce nel compito di rappresentare la coscienza sociale di quella che sempre di più andava determinandosi come l’età dell’ansia.
 La tempera di Viani, viceversa, è dominata dai toni lugubri della sera.
Il sopraggiungere del buio ha qui un significato che non si esaurisce nelle necessità descrittive dell’episodio rappresentato, ma che neppure si semplifica nella metafora immediata del senso di un’incombente tragedia.
La notte, evocatrice di atavici affanni sconosciuti al giorno, non è più solo quella condizione esistenziale che suggeriva a Leopardi domande destinate a rimanere senza risposta (“ dimmi: ove tende | questo vagar mio breve …?”), ma diventa la dimensione conoscitiva che intende andar oltre quella conoscenza superficiale – e ristretta all’ambito fenomenico –  a cui si limitano le razionali scienze diurne.
E di nuovo si torna a Zaratustra: “Profondo è il mondo | e più profondo che nei pensieri del giorno”: qui si radica la dimensione umbratile dell’inquietudine che palpita nella cultura d’oltralpe.
L’ansia non trova dunque ragione nella previsione di un’inevitabile catastrofe, bensì nella presa d’atto del crollo di tutte le certezze che le scienze del XIX secolo sembravano aver assicurato: la luce è oscurata e la terra frana sotto i piedi.
Nella rappresentazione del suo paesaggio urbano, Viani traduce immediatamente quest’ultima sensazione effigiando case sghembe che anticipano lo scenario da incubo del Calligari di Wiene (1920).
In tale figurazione, oltre al facile calambour che volge in fondamenta, i fondamenti in crisi, si esercita una precisa critica alla più evidente autocelebrazione del secolo appena passato: l’architettura della Tour Eiffel e dei Grandi Magazzini, nuove cattedrali, o babeliche torri, della Parigi di Haussmann.
Ma è anche, si è detto, un’ambientazione decisamente onirica. Vale quindi la pena di notare che, proprio allo scoccar del secolo, Freud aveva dato alle stampe L’interpretazione dei sogni, sul cui frontespizio, la citazione virgiliana – “Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo” – indicava dove doveva essere cercato il necessario complemento della vigile ragione.
Da qui, anche, si muoveva quella critica che, come abbiamo visto, portava ad un dissolvimento ontologico dell’Io, e di ciò dà puntualmente conto la rappresentazione della figura umana di Viani, che, proseguendo sulla strada della scarnificazione del soggetto, già tracciata da Cézanne e Giacometti, approda a un’estrema semplificazione schematica, che accoglie tempestivamente la lezione espressionista [cfr. il particolare di Grande giardino zoologico, August Macke, 1912].


Lorenzo Viani non è un pittore di formazione accademica e i suoi studi si sono arrestati dopo la terza elementare, ma dopo un apprendistato negli ambienti artistici toscani, ha soggiornato a lungo a Parigi, frequentando le stesse cerchie di Soffici. È probabile che il suo spirito di autodidatta, che lo porterà a dar buona prova anche come scrittore, gli abbia permesso di assorbire più largamente, al netto di pregiudizi intellettuali, dal clima di fermento di quei milieu e forse di intuirne, almeno in parte, il retroterra culturale
Se, a questo punto, arretrando di qualche passo, gettiamo un’occhiata d’insieme, all’intera parete, vedremo campeggiare, accanto all’opera di cui discorriamo, il grande quadro di Giovanni Fattori. Una distanza apparentemente abissale sembra separarli: da una parte un paesaggio rurale, dove ancora domina la trazione animale, dall’altra una periferia urbana già coeva della marinettiana celebrazione di motori e velocità.
In realtà questa epocale trasformazione della vita quotidiana è avvenuta nello spazio ristretto di una cinquantina d’anni, e a lungo i due mondi sono coesistiti. In ogni caso, per dirla con Baudelaire, ancora una volta le città sono cambiate più in fretta del cuore degli uomini. Nella cifra d’ossimoro di un passato ancora presente va quindi letta questa collocazione che ci dà da pensare.
Negli stessi anni in cui il Risorgimento ormai compiuto sopisce il pianto del Va’ pensiero, un nuovo lamento, che non ha bisogno di parole, strugge gli animi più sensibili nelle platee d’Europa. È la dolce agonia dell’accordo del Tristano, un’esasperata tensione che cerca invano un punto d’approdo.
Un nuovo equilibrio è possibile solo rinunciando a quell’armonia che fu già delle luminose sfere celesti, per rivolgersi, anche qui, a quelle che paiono umbratili e ctonie potenze d’Acheronte.
Moltissimo tempo prima – c’informa Plutarco – un altro grido sofferto era risuonato lungo le sponde del Mediterraneo: “Il grande Pan è morto!”. Ora il cerchio si chiude e approfittando del silenzio di dio, ucciso dall’umana autosufficienza del secolo della borghesia, il grande Ambiguo, da sempre consustanziale alla genia d’Adamo, si desta da morte apparente e fa sentire la sua voce.
Siamo infatti nel 1914 e l’irrazionale, facendosi beffe di Hegel, sta per farsi reale.